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Brescia,

Indipendenza e autonomia della Magistratura in Eurasia e USA


Indipendenza ed autonomia del potere giudiziario in generale dalle composizioni di Mauro Volpi e della Rivista dell'Associazione Italiana dei Costituzionalisti

L’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario rappresentano due dei maggiori capisaldi della Magistratura, ed in special modo il principio dell’indipendenza viene applicato in tutte le magistrature occidentali ed e’ stato codificato, a livello internazionale anche nello Statuto della International Association of Judges. 

Nella maggior parte delle nazioni del mondo, all’interno della magistratura troviamo il magistrato giudicante ed il magistrato inquirente o requirente, ed entrambi sono soggetti soltanto alla legge, secondo quanto sancito a livello costituzionale in tali paesi. 

In generale i valori fondamentali di indipendenza ed autonomia della Magistratura si estrinsecano attraverso principi di eguaglianza e di liberta’ del magistrato, tanto quanto si estrinsecano quelli che competono a qualsiasi altro cittadino. 

Anche questo rappresenta un principio che viene sancito a livello costituzionale e di ordinamento secondo leggi secondarie, in quasi tutti i paesi del mondo, salvi i casi ove si sia in presenza di una dittatura, sotto la quale sia stata posta tutta la magistratura. 

Tuttavia il bilanciamento tra diritti di liberta’ e tutela dell’indipendenza dei magistrati pone dei problemi che sono stati risolti in modo diverso da ciascuna legislazione statale. 

Bisogna innanzitutto tener conto che l’indipendenza del magistrato e’ indispensabile per la l’esercizio di una giustizia imparziale. 

E per soddisfare tale imprescindibile esigenza e’ necessario stabilire uno standard di efficienza professionale e che, di conseguenza, i comportamenti dei magistrati siano regolati da norme che possano imporre dei limiti alla loro associazione in partiti, o alla partecipazione attiva ad iniziative e manifestazioni di partito, che ne possano pregiudicare potenzialmente l’indipendenza. 

In un caso completamente opposto, quello degli USA, vedremo come la piena politicizzazione della magistratura sia prevista proprio come garanzia per i cittadini, che abbiano eletto determinati magistrati, secondo il lor indirizzo politico, dell’effettiva applicazione delle leggi, che siano state emanate in un contesto locale o nazionale, a seconda degli interessi diffusi in in quell’ambito territoriale. 

Potremo dunque sintetizzare i due singoli aspetti o anche limiti, della Magistratura come due distinte concezioni, di cui in una si stabilisca la necessita’ di un comportamento dei magistrati improntato ad un’imparzialita’ nell’applicazione delle leggi, che prescinda dal proprio pensiero politico personale. 

Ma vedremo come in Italia vi sia la tendenza della Magistratura a travalicare i propri limiti, a causa della debolezza del potere politico, dovuta a maggioranze risicate o create attraverso manovre complesse di palazzo, comunque previste costituzionalmente, grazie alla politicizzazione della Magistratura, secondo schemi che ricalcano le divisioni politiche. 

Quindi si puo’ dire che in Italia, fino a quando non entreranno in vigore le riforme sulla separazione delle carriere e sul premierato, vi sia piu’ un’influenza della Magistratura sulla politica, piuttosto che un asservimento della Magistratura alla politica, dato anche il tenore delle norme costituzionali, quali l’art. 104. 

Con il prossimo disegno di legge detto Premierato, sull’elezione del presidente del consiglio, da parte dei cittadini, e la riforma della separazione delle carriere dei magistrati, nonche’ sulla parificazione del numero dei componenti togati ai componenti laici del CSM, saranno abbattuti i tre primi fondamenti dell’influenza dei magistrati sulla politica italiana, che davano luogo alla politicizzazione della Magistratura. 

E se cio’ trova conferma nell’opinione dei dottrinari e giuristi piu’ affermati, e’ chiaro che, a causa della politicizzazione della magistratura, non vi possa essere una vera e propria indipendenza sia come Magistratura intesa quale corpo totale, sia come indipendenza personale del singolo magistrato, proprio perche’ e’ piuttosto evidente come una simile influenza complessiva possa pregiudicare l’imparzialita’ delle decisioni del singolo, soprattutto quando questo voglia soddisfare legittimamente le sue esigenze di avanzamento di carriera od altre necessita’, che verrebbero disattese nel caso in cui non dovesse far parte di qualche corrente, rappresentata nel Consiglio Superiore della Magistratura, e nell’ANM. 

Tale parzialita’ puo’ trovare applicazione indipendentemente dall’orientamento politico del potere legislativo o di quello esecutivo, andando solo a rafforzarne l’eventuale orientamento favorevole, oppure contrastando l’orientamento opposto, che si sia imposto alle urne. 

Nell’orientamento opposto di common law, abbiamo in primo luogo l’elezione diretta e popolare di magistrati giudicanti ed inquirenti, quindi abbiamo una posizione che comporta creazione di diritto vivo e/o applicazione di leggi, attraverso le sentenze, che siano coerenti con il proprio pensiero politico, che abbia vinto le elezioni in una determinata realta’ locale, con l’espressione di uno o piu’ magistrati, giudici o pubblici ministeri, come accade negli USA. 

Vedremo in seguito come vi siano in questo caso dei forti limiti che pregiudicano l’imparzialita’ e l’indipendenza dei magistrati, a favore del controllo da parte del potere esecutivo. 

Tra questi due casi limite vi sono delle posizioni intermedie che comunque tendono all’indipendenza totale dal potere esecutivo, attraverso forme diverse dalla elezione diretta e popolare dei magistrati, e che propendono per la nomina tramite concorso pubblico o la scelta operata da determinate personalita’ politiche, e/o di magistratura, e/o di governo, e/o da capi di stato.  

Fin qui abbiamo parlato in generale di indipendenza e di politicizzazione. 

Adesso e sempre in generale faremo alcuni cenni al problema dell’autonomia. 

Si parte sempre con il dire che l’indipendenza e l’autonomia siano le due facce di una stessa medaglia, nel senso che ove indipendenza ed autonomia siano estese al massimo siamo sul terreno delle democrazie liberali di tipo occidentale, mentre se esse sono limitate, in un certo qual modo ci troviamo gia’ in un regime dittatoriale. 

Abbiamo visto che l’indipendenza vuole garantire che il giudice sia imparziale e libero da condizionamenti nel suo giudizio. 

Invece l’autonomia attiene al profilo della sua carriera, cioe’ agli avanzamenti di stato, alle modalita’ con cui avvenga la nomina, ed alle controversie disciplinari. 

Quindi per autonomia si intende la capacita’ di autogovernarsi con degli organi che esercitino funzioni di natura decisionale o consultiva sulle questioni attinenti alla carriera dei magistrati, all’organizzazione, al funzionamento ed al finanziamento degli uffici giudiziari. 

La diffusione di questi organismi di autogoverno e’ un fenomeno di grande ampiezza e di notevole espansione, soprattutto a seguito della crisi degli stati comunisti europei e dei processi di democratizzazione che tale crisi ha innescato assieme al sorgere di un a vasta discussione dottrinaria.  

In pratica vi e’ stata una notevole diffusione dei consigli di giustizia nella maggior parte dei paesi del mondo. 

L’esempio a cui si e’ piu’ spesso fatto ricorso e’ quello italiano, poiche’ risultante da una marcata reazione agli effetti autoritari del passato regime, come anche si e’ fatto riferimento alla Spagna, mentre negli altri stati vi e’ stato un passaggio graduale a forme sempre piu’ autonome di autogoverno, come suggerisce anche l’esempio francese, considerato il periodo dell’invasione tedesca, una brevissima esperienza dittatoriale. 

Alla base di tale evoluzione si e’ riconosciuto che, in ossequio ai principi di indipendenza ed autonomia del potere giudiziario e dei singoli giudici, in assenza di organi e di procedure in materia di organizzazione giudiziaria e di carriera dei suoi componenti, tali due principi avrebbero corso il rischio di essere una enunciazione vuota e quindi priva di effetti e di contenuti. 

Di conseguenza si sono affermati nella maggioranza degli stati di tipo occidentale, degli organi di autogoverno della magistratura, che hanno finito per acquisire delle competenze tradizionalmente spettanti al potere esecutivo, e cioe’ nella persona normalmente ministro della giustizia, o quantomeno condizionandone l’esercizio in via consultiva. 

Tali organi sono quindi sorti nella maggioranza degli stati che hanno subito un’esperienza autoritaria non solo in Europa ma anche in sud America. 

Tale esigenza si e’ presentata anche in stati che pur non avendo un organo come un consiglio di giustizia, nondimeno hanno creato degli organi che sono composti da giudici che hanno una funzione consultiva e propositiva proprio nei confronti delle autorita’ politiche e che normalmente decidono sulla carriera dei magistrati e sull’amministrazione degli uffici giudiziari. 

E comunque anche nei paesi dove l’indipendenza e l’autonomia siano totali, esiste sempre, pur in presenza di un organo di autogoverno, un potere di controllo da parte del potere esecutivo, in persona del Ministro della Giustizia, come ad esempio in Italia, quando sia necessario l’invio di personale con incarichi particolari come gli ispettori, in vicende che possono riguardare il comportamento di taluni giudici e pubblici ministeri, e tutto questo e’ stato sancito in base a delle motivazioni di principio, allo scopo di non lasciare sguarnita la difesa da eventuali caratteri autoreferenziali o anche di casta, dei magistrati e dei loro organi di autogoverno. 

Scendendo nelle ragioni di natura politico-istituzionale, l’evoluzione degli organi di autogoverno e’ strettamente dipendente dall’evoluzione dei rapporti tra potere politico  e potere giudiziario. 

Le differenze piu’ marcate dipendono dal modello di magistratura adottato, poiche’ nei paesi di common law tale modello e’ professionale in quanto fondato su giudici che provengono dalle professioni legali e cio’ comporta un’investitura di tipo politico, con sfumature che passano dalla nomina governativa dei giudici, nel sistema anglosassone, alla elezione politica, come nel sistema americano. 

Nei paesi continentali o di civil law, come l’Italia, il modello e’ quello burocratico amministrativo, perche’ costituito da magistrati che sono pubblici funzionari reclutati mediante concorso. 

Il sistema americano e’ un esempio che puo’ essere inquadrato nel tipo di politicizzazione pura, rispetto a quello spurio o ibrido rappresentato dal sistema italiano, basato su nomina concorsuale, e quindi con un tipo di politicizzazione, la quale invece di essere influenzata dal potere politico, e’ essa stessa a debordare dai suoi limiti per invadere la sfera politica. 

Secondo qualcuno qui si parla del fenomeno della giudiziarizzazione della politica, ma a quanto pare sembra piu’ esatto, come riportato negli articoli gia’   presenti nel blog, parlare di politicizzazione della magistratura. 

Infatti e’ noto come la suddivisione dei tre poteri in settori specifici determinati sia solamente una visione di principio, mentre nel concreto abbiamo una magistratura che compie atti politici quando si occupa di influenzare gli orientamenti della politica, come nel fenomeno delle toghe rosse, mentre risulta difficile individuare una parte politica che voglia sostituirsi al potere giudiziario, quando quest’ultimo sia espressione di un consiglio di giustizia di autogoverno, come nel caso italiano del CSM, o Consiglio Superiore della Magistratura. 

Peraltro restano al potere esecutivo ed a quello legislativo dei poteri eventuali di controllo, come l’invio di ispettori ministeriali per controllo sull’operato di magistrati inquirenti o giudicanti, o dell’istituzione di commissioni parlamentari temporanee di inchiesta, ovvero quando venga messa in stato di accusa, dal parlamento stesso, un ministro o un suo componente, comunque rimanendo assegnato al potere legislativo il potere normativo non delegabile ai giudici. 

Il fenomeno della politicizzazione della magistratura è stato tanto più accentuato quanto più la politica è apparsa debole e in crisi o si è rivelata meno reattiva alle domande sociali e non in grado di far valere la propria responsabilità nei confronti dei cittadini. 

Si è quindi potuto affermare che la magistratura abbia assunto un ruolo incisivo nella governance di molti paesi democratici, sempre che tale espressione venga distinta da quella di Governo in senso stretto, quale organo di vertice del potere esecutivo, e ricomprenda tutti i soggetti, pubblici e privati, che esercitano un’influenza su questioni di rilevanza pubblica e sociale.  

È innegabile, infatti, che la magistratura, pur non partecipando alla determinazione dell’indirizzo politico in materia di giustizia, di cui restano titolari il potere legislativo e quello esecutivo, acquisti una politicità in senso lato che le consente di avere un’incidenza sulla politica giudiziaria di un Paese, come l’Italia, acquisendo persino una posizione che non le compete, soprattutto grazie alla prevalenza della componente togata su quella laica, all’interno del CSM. 

Tale evoluzione del rapporto tra poteri è derivata da varie cause. 

In primo luogo l’affermarsi di Costituzioni rigide che ridefiniscono il principio della soggezione dei giudici alla legge, liquidando l’antica qualificazione montesqueiana dei giudici quale bocca della legge, e trasformandoli in soggetti che contribuiscono tramite l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’interpretazione conforme e parzialmente creativa all’attuazione della Costituzione.  

In secondo luogo con l’istituzione delle Corti sovranazionali, nel caso della UE, la quale tende a configurare i giudici nazionali come giudici europei.  

Ulteriormente ha contribuito la crescita professionale e culturale di una categoria più consapevole dell’importanza del suo ruolo, il che talvolta degenera nella ricerca del consenso mediatico e sociale.  

In linea generale si puo’ ritenere che l’affermarsi di organi di governo autonomo della magistratura è stata più precoce nei Paesi nei quali la politica è stata più invasiva e ha tentato per lungo tempo di condizionare l’esercizio della funzione giurisdizionale (come in molti Stati dell’Europa continentale). 

In tempi più recenti se ne è avvertita la necessità anche in ordinamenti, nei quali la politica abbia manifestato una notevole dose di self-restraint nei confronti dei giudici nominati da autorità politiche (quelli anglosassoni, in Germania e negli Stati nordici).  

In ogni caso in tutti gli ordinamenti si è sentita la necessita’ di una maggiore autonomia negli ordinamenti in cui si e’ manifestata, specie negli ultimi decenni, la tendenza alla istituzione di organismi di tutela, titolari di competenze variabili e dei quali fanno parte i magistrati.  

La situazione che emerge dai contributi che seguono risulta fortemente dinamica e assoggettata a cambiamenti costituzionali, legislativi o convenzionali. 

Infatti l’evoluzione prevalente è quella della moltiplicazione di organismi indipendenti e titolari di funzioni significative sulla carriera dei giudici e sull’organizzazione giudiziaria, anche se in alcuni ordinamenti si verifica una reazione del potere politico che tende a controllare o ad esautorare gli organi di governo autonomo della magistratura.  

Ritornando al concetto precedentemente espresso relativo all’indipendenza ed all’autonomia come facce di una stessa medaglia, in tema di indipendenza e quindi di imparzialita’ dei giudici, possiamo notare come i requisiti di neutralita’ ed indipendenza della magistratura, che vengono all’attenzione in tema di deontologia giudiziaria, molto spesso costituiscono fonte di possibili restrizioni nel godimento di diritti e libertà, normalmente garantite a tutti i cittadini o consociati.  

Essi devono accompagnare tutta l’attività giurisdizionale, presupponendo di fatto una condizione di assoluta indipendenza dagli altri poteri, con la conseguenza dell’impossibilità, per ai singoli magistrati, di costituire o partecipare ad associazioni, in particolare di natura partitica, che per loro essenza non possono essere considerati neutrali.  

Si impone pertanto il più delle volte una riflessione sul rilievo politico-sociale dell’azione giudiziaria esercitata dal magistrato e quindi sull’equilibrio fra limiti all’associazione ed il principio di eguaglianza.  

Da questi presupposti prende forma il problema dello status della magistratura che, da un lato, ha come oggetto la salvaguardia dell’indipendenza e dell’imparzialità, mentre, dall’altro, persegue il fine di favorire il suo coinvolgimento nella vita della Nazione. 

La libertà di associazione costituisce una delle prime garanzie ai diritti fondamentali nella sua forma aggregata, espressione collettiva di uno status libertatis, che prevede uno spazio non condizionato da costrizioni legali.  

Tale liberta’ può essere, tuttavia, soggetta a limiti, ovvero ad un bilanciamento nel rispetto dei principi di ordine pubblico, dei diritti di terzi in gioco e di altri valori costituzionali.  

Su questo sfondo, analizzare la libertà di associazione, con particolare riferimento alla capacità di affiliazione partitica dei magistrati permette di vagliare il grado di imparzialità e di indipendenza nei rispettivi Paesi di riferimento, in un constante e delicato bilanciamento tra prerogative del potere giudiziario e garanzie alla partecipazione politica del singolo magistrato. 

Il potenziale conflitto fra la condizione di magistrato e l’affiliazione a partiti politici può determinare limitazioni al diritto di associazione, in deroga ai principi universali di eguaglianza e libertà, che vorrebbero il magistrato cittadino fra i cittadini, con pari diritti anche in merito alla propria capacità associativa.  

Pertanto, sotto questo aspetto, c’è da chiedersi quale sia il reale condizionamento di una funzione pubblica svolta in forma vincolata, alla luce dei rapporti fra magistratura e potere politico.  

Nella gran parte dei casi, i vari modelli istituzionali presi in esame nel presente articolo esprimono differenti declinazioni dell’opportunità di delimitare la libertà di associazione e, in particolare, di associazione partitica dei magistrati.  

A livello comparato, le modalità in cui i vari poteri si combinano tra di loro risente fortemente del contesto storico-culturale in cui gli stessi si inseriscono e si caratterizza per una costante ricerca di equilibrio nella gestione delle proprie funzioni.  

Ne conseguono sistemi diversi, sempre contraddistinti da una scrupolosa ricerca di parametri volti a garantire, da un lato, l’autonomia dei poteri, dall’altro la necessaria interconnessione delle forze istituzionali.  

La tradizionale differenza tra Paesi di Civil Law e di common Law si riflette anche sul piano dell’organizzazione della magistratura, ponendo in essere due differenti sistemi. 

Infatti uno di tipo amministrativo-burocratico, frutto della tradizione romano–germanica, l’altro di tipo elettivo, appartenente alla common law della tradizione franco-illuministica-statunitense, e ve n’e’ un terzo tipo, sempre di common law, ma di tradizione anglosassone, che fa riferimento alle nomine governative o compiute da organi di un certo rilievo ed autorevolezza, che rappresentano quasi dei passaggi intermedi tra le due posizioni estreme.  

I distinti sistemi di accesso alla magistratura, oltre ad influire sulla legittimazione della categoria, definiscono in termini diversi il perimetro della libertà di associazione partitica del singolo magistrato. 

Nei sistemi di tipo amministrativo o burocratico, come abbiamo gia’ esaminato in precedenza, la legittimazione del giudice si produce di una forma democratica indiretta in quanto la sovranità popolare, attraverso la Costituzione, ripone la propria fiducia in un modello di giustizia tecnica non soggetta al suffragio universale, ma ad un concorso di natura statale.  

In un sistema di natura amministrativa-burocratica, quale il sistema europeo continentale, la selezione del personale avviene su base tecnica, che si concretizza nell’espletamento di un concorso pubblico, al quale partecipano soggetti desiderosi di intraprendere tale carriera.  

L’iter professionale inizia poi in seno al corpus giudiziario, che ordina gerarchicamente i propri membri in base a meccanismi fondati sulla progressione di carriera.   

Questo modello è particolarmente utilizzato negli ordinamenti di Civil Law, frutto del retaggio napoleonico, volto ad inquadrare la magistratura in senso gerarchizzato.  

In Italia il canale di accesso alla magistratura togata è unico e si basa tradizionalmente sul modello per concorso, come statuito dall’articolo 106 della Costituzione.  

Le radici di questo modello partono già all’indomani dell’unificazione, quando venne esteso all’intera penisola il modello burocratico del Regno sabaudo, di matrice napoleonica.   

Il magistrato è un tecnico del diritto, caratterizzato da imparzialità professionale, neutralità politica ed autosufficienza economica, al servizio della società. 

L’indipendenza della magistratura viene a configurarsi come una garanzia del cittadino e non come un privilegio del singolo, sulla base del principio per cui il giudice è soggetto unicamente alla legge e all’ordinamento giuridico. 

Attraverso un’analisi dell’esperienza italiana, spagnola, francese e tedesca, vengono delineate le principali caratteristiche della disciplina costituzionale in materia di libertà di associazione partitica dei magistrati, tra similitudini e differenze a livello comparato.  

Se da un lato, è consentito ai giudici il godimento dei diritti e delle libertà, dall’altro lo stesso deve essere bilanciato con le prerogative della funzione giudiziaria.  

In particolare, per quanto attiene al diritto di associazione, esso è garantito nella misura in cui sia frutto della libertà di espressione e di opinione, ma a condizione che resti indipendente da ogni forma di associazionismo partitico.  

A tutela di questo sistema, i Consigli Superiori di Magistratura o di Giustizia rappresentano una garanzia contro ogni tipo di intromissione nella decisione finale del giudice, momento ultimo dell’iter processuale.  

Nei sistemi impostati su base elettiva, invece, in virtù della sovranità popolare, è al popolo stesso che compete, direttamente o indirettamente, l’elezione dei magistrati. 

Questo modello è il frutto del retaggio della rivoluzione francese del 1789, che ambiva a creare un ordinamento giuridico fondato interamente sulla volontà popolare. 

Nell’ideologia di Montesquieu, essendo il popolo sovrano, ad esso spettava la nomina dei giudici, eletti con il compito di amministrare la Giustizia in proprio nome: "Il potere giudiziario non dev'essere affidato a un senato permanente, ma dev'essere esercitato da persone tratte dal grosso del popolo, in dati tempi dell'anno, nella maniera prescritta dalla legge, per formare un tribunale che duri soltanto quanto lo richieda la necessità". 

In tal modo il potere giudiziario, tanto temuto dalla gente, non essendo legato né a un certo stato né a una certa professione, diventa, per così dire, sopportabile, perche’ soggetto a durare per un tempo limitato. 

Quindi non si hanno continuamente dei giudici alla vista diretta dei cittadini, tanto che si poteva affermare che non si debba temere piu’ i singoli magistrati, ma solo la magistratura, come insieme di categoria, nel momento in cui essa fosse stata creata contro il volere dei cittadini. 

In questo modello, i magistrati sono chiamati ad esercitare la propria funzione esclusivamente per un periodo di tempo limitato, in modo da dare al popolo la possibilità di esprimere, con una certa cadenza, le proprie preferenze.  

L’articolo 2 della Carta costituzionale francese del 1791 statuiva che: "La giustizia sarà resa gratuitamente da giudici eletti a tempo dal popolo, e istituiti con lettere patenti del Re, che non potrà rifiutarle. – Essi non potranno essere né destituiti se non per violazione dei doveri pubblici debitamente giudicata, né sospesi se non per un’accusa ammessa. – L’Accusatore pubblico sarà nominato dal popolo".  

Secondo la teoria illuminista, l’ordinamento giuridico doveva essere fondato sul principio per cui la libertà consiste nell'obbedire alle leggi che ci si è date e la servitù nell'essere costretti a sottomettersi ad una volontà estranea, che non avrebbe potuto piu’ esistere. 

Sul piano comparato, tale sistema è statisticamente il meno utilizzato, trovando la sua principale espressione nell’ordinamento statunitense. 

Nonostante esso rappresenti il sistema che maggiormente riesca coinvolgere i singoli magistrati, giudici creativi di diritto, nel contesto sociale in cui operano, grazie alla loro opera basata sul precedente e sul diritto vivente, anche se cio’ accade nei sistemi di common law ove non vi sia alcuna elezione popolare dei giudici, è per rovescio quello che più rischia di generare un’esposizione della categoria ad un’influenza esterna. 

Il modello italiano di indipendenza ed autonomia 

L’ordinamento italiano concepisce la magistratura come un ordine autonomo e indipendente. 

Questo modello è il risultato della progressiva evoluzione della figura del magistrato, che soltanto nel processo costituente repubblicano ha assunto i caratteri odierni, quale autorità statale soggetta unicamente alla legge.  

In epoca liberale, infatti, il potere giudiziario era solo formalmente libero e indipendente, essendo influenzato, da un lato, dal legislativo nel suo modus iudicandi e nel suo modo di essere inquisitorio, e, dall’altro, dall’esecutivo nei procedimenti di selezione, promozione e direzione amministrativa. 

Rilevano, al riguardo, le eccezioni sollevate dal Ministro della Giustizia del tempo, Pasquale Stanislao Mancini, sull’opportunità di un miglioramento delle condizioni della magistratura, anche al fine di una tutela dalle pressioni ed influenze politiche, per una corretta ed imparziale applicazione della legge. 

Successivamente, durante il ventennio del secolo scorso, l’azione della magistratura fu fortemente condizionata dal mutato contesto politico, in cui le libertà civili e politiche furono limitate in nome di un accentramento autoritario. 

Su questo sfondo, con l’introduzione, nel 1932, dell’obbligo di iscrizione al partito per tutti i magistrati ai fini dell’iscrizione al ruolo, fu rafforzata l’azione di controllo governativo sul potere giudiziario, a scapito dell’indipendenza di quest’ultimo. 

Nel 1948, con la promulgazione della Costituzione repubblicana, vennero gettati i presupposti per un rinnovamento del sistema giudiziario, in primis attraverso lo smantellamento dei vincoli sulla magistratura.  

All’articolo 101, venne introdotto il principio di indipendenza, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge.  

Detto principio, da una dimensione eminentemente esterna, volta a garantire l’indipendenza del potere giudiziario a fronte degli altri poteri dello Stato, andò ad estendersi ad una dimensione altresì interna, al fine di garantire l’autonomia decisionale del singolo magistrato. 

Nell’ordinamento italiano, da un lato, venne introdotto un nuovo modello di magistratura volto a creare un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, ex articolo 104 della Costituzione.  

Dall’altro, a garanzia dei principi di autonomia e indipendenza interna, all’articolo 105 della Costituzione, venne disciplinato un rinnovato Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), competente su assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari, tanto di giudici quanto di pubblici ministeri.  

Quindi dal punto di vista dell’autonomia dei giudici, in un’ottica di diritto comparato, la struttura di gran lunga prevalente in Europa, ma anche in America latina, è rappresentata dai “Consigli di giustizia”, termine che, al di là della diversa denominazione concretamente adottata, è quello più comunemente utilizzato a livello sovranazionale. 

Tale prevalenza non è casuale.  

Innanzitutto i primi esempi storici di organi consiliari, anche se composti esclusivamente da giudici delle Corti supreme e titolari di funzioni di tipo consultivo, si sono verificati in vari Paesi europei (Francia, Italia, Romania, Portogallo, Spagna) tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900.  

In secondo luogo i primi Consigli superiori della magistratura quali organi indipendenti e titolari di competenze decisionali, sono stati previsti nel secondo dopoguerra nella Costituzione francese del 1946 e in quella italiana del 1948.  

Ciò induce a far parlare talvolta di un modello italo-francese di Consiglio.  

In realtà dopo il 1958 (anno dell’attuazione del CSM in Italia con la legge n. 195 e dell’entrata in vigore della vigente Costituzione francese che ha tra l’altro ridimensionato il ruolo del Consiglio) va preso atto che è stato soprattutto il CSM italiano ad assumere progressivamente un grado di legittimità e di autorevolezza tale da essere considerato come uno standard di qualità della giustizia.  

Il riferimento all’esperienza italiana operato da vari ordinamenti europei ha fatto parlare di un «modello sud-europeo» di Consiglio, istituito nei Paesi dell’Europa meridionale, ma anche in Francia e in Belgio, caratterizzato da Consigli titolari delle competenze relative alla carriera dei magistrati, distinto da un «modello nord-europeo», proprio degli Stati nordici, costituito da organi che si occupano di amministrazione della giustizia e di gestione organizzativa e finanziaria delle Corti. 

Tale distinzione è piuttosto discutibile.  

In primo luogo perché nei Paesi del Nord Europa, come si vedrà dopo, non si può parlare dell’esistenza di Consigli di giustizia, ma di autorità amministrative indipendenti, qualificabili piuttosto come Court Administration.  

In secondo luogo il modello sud-europeo di Consiglio si è diffuso ed è stato preso come riferimento anche in vari ordinamenti dell’Europa centro-orientale. 

La necessità di coordinare le diverse esperienze e di farle valere nei confronti delle istituzioni internazionali e sovranazionali ha prodotto nel 2004 la nascita dell’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ) o Réseau européen des Conseils de la Justice (RECJ), Rete della quale fanno parte sia Consigli di giustizia sia istituzioni, come Court Service e Court Administration, comunque indipendenti dal potere esecutivo e da quello legislativo.  

Nel 2007 l’ENCJ è diventata una associazione internazionale dotata di personalità giuridica e dal 2009 si è dotata di un segretariato permanente con sede a Bruxelles.  

Attualmente la Rete è accreditata presso l’Unione Europea e ne fanno parte venti Stati membri della UE e ventidue istituzioni consiliari; inoltre partecipano ai suoi lavori con lo statuto di «osservatori» i Consigli giudiziari di Inghilterra e Galles, Irlanda del Nord e Scozia. 

Dai documenti della Rete e di altri organismi operanti nell’ambito del Consiglio d’Europa emerge la preferenza per alcune caratteristiche essenziali dei Consigli di giustizia. 

E cioe’ la legittimazione costituzionale, la composizione mista con un’adeguata presenza di una componente togata rappresentativa delle diverse componenti della magistratura e di una componente di solito designata dal Parlamento e in possesso di requisiti tecnici, la titolarità di competenze sulla carriera dei magistrati e sulla responsabilità disciplinare, ma anche relative al funzionamento degli uffici giudiziari, l’esercizio di funzioni consultive e normative.  

Naturalmente quelle segnalate sono linee di tendenza che non annullano le differenze importanti che esistono tra le diverse esperienze, di cui ci occuperemo più avanti.  

Intanto va rilevato che una differenziazione rilevante e trasversale riguarda l’equilibrio di genere nella composizione dei Consigli operanti nell'Unione Europea.  

Si tratta di una questione importante in considerazione del fatto che all’interno della magistratura giudicante degli Stati membri la componente femminile è andata progressivamente aumentando fino a rappresentare mediamente il 51% dei giudici.  

Ebbene, la media delle donne facenti parte dei Consigli è del 33% con l’individuazione di solo sette Paesi nei quali la presenza femminile supera il 40%, tra i quali spiccano la Danimarca (dove è del 72%) e la Finlandia (dove è del 50%).  

In ben sette casi la percentuale è inferiore al 25% (e tra questi rientrano il CSM e il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa italiani).  

Inoltre sono pochi gli ordinamenti che hanno dato vita ad una normativa a tutela della parità di genere all’interno dei Consigli, come si è verificato, con diversa ampiezza, in Belgio, Danimarca, Francia, Spagna. 

La necessità di una magistratura espressione di un potere autonomo, neutro ed imparziale, indusse il legislatore costituzionale a prevedere possibili limiti al normale godimento dei diritti e delle libertà normalmente garantite ai cittadini. 

In particolare, in deroga a quanto disposto negli articoli 18, comma 19 e 49, comma 20 della Costituzione, rispettivamente in materia di libertà di associazione e libertà di associazione partitica, venne introdotta una disciplina restrittiva con riferimento al diritto di iscrizione a partiti politici.  

L’iter in sede costituente fu particolarmente complesso, dal momento che un esplicito divieto sarebbe potuto risultare pregiudizievole all’opera dei partiti, in quanto foriero di una visione negativa della politica a livello sociale. 

Si decise, pertanto, di introdurre una norma ad hoc che demandasse alla legge ordinaria la scelta in merito alle possibili restrizioni al diritto di associazione politica dei magistrati, soprassedendo all’immediato inserimento del divieto de quo nel testo costituzionale.  

L’articolo 98 c. 3 della Costituzione introdusse un limite espresso alla libertà di associazione partitica per determinate categorie professionali, tra cui quella dei magistrati, così codificato: 

Si possono con legge stabilire limitazioni al diritto d'iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari ed agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero. 

In questo caso, attraverso il ricorso ad una norma programmatica, si volle delimitare un perimetro a salvaguardia dell’imparzialità e dell’indipendenza della funzione giudiziaria, rinviando al legislatore ordinario il compito di adottare prescrizioni specifiche sul punto.  

Il tema in esame ha conosciuto nel tempo molteplici interpretazioni ed è stato oggetto di confronto, sia in dottrina che in giurisprudenza, tra quanti hanno supportato la possibilità anche per i magistrati di esercitare i diritti costituzionali riconosciuti indistintamente a tutti i cittadini, e quanti hanno invece sostenuto che la peculiarità della funzione richiederebbe un restringi-mento ed una definizione di tali diritti proprio a sostegno della indispensabile condizione di indipendenza ed imparzialità che si richiede all’ordine giudiziario ed ai suoi appartenenti. 

Al riguardo, secondo quanto stabilito dalla Corte Costituzionale italiana, nella sentenza n. 145 del 22 giugno 1976, l’assommarsi nello stesso soggetto della qualità di cittadino e di quella di magistrato fa emergere la necessità di procedere, nel valutare il comportamento di quel soggetto, all’equilibrato bilanciamento tra ciò che attiene al suo diritto di libertà in quanto cittadino e ciò che riguarda il prestigio dell’ordine giudiziario, coinvolto dalla sua coesistente qualità di magistrato.  

Nelle interpretazioni successive e nei dibattiti parlamentari conseguenti alla costituente risultò prevalente la tesi secondo cui la Costituzione consente, ma non impone misure limitative alla libertà di iscriversi in partiti per la categoria in questione.  

Per lungo tempo, infatti, sulla base di questa tesi, la materia è stata semplicemente ispirata al codice etico della magistratura ordinaria e gli interventi legislativi sono stati limitati a sporadici casi circa:  

(a) il divieto di svolgere attività inerente ad un’associazione o partito politico per magistrati appartenenti alla Corte Costituzionale, ex articolo 8 della Legge n. 87/1953;  

(b) la preclusione vigente per i componenti del Consiglio Superiore della Magistratura di svolgere attività proprie degli iscritti ad un partito politico, ex articolo 12 della Legge n. 74/1990. 

Nella reiterata difficoltà di stabilire un punto di equilibrio tra libertà universali e limiti particolari per la magistratura, dopo anni di dibattito e di sostanziale vuoto normativo, l’originaria previsione programmatica costituzionale è stata disciplinata in forma specifica con il Decreto legislativo n. 109/2006 – Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati – trasformato in Legge n. 269 del 2006, attuativo della delega contenuta nella Legge n. 150 del 2005, di riforma dell’ordinamento giudiziario.  

La nuova normativa considera illecito disciplinare l'iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici, ovvero il coinvolgimento nelle attività di soggetti operanti nel settore economico e finanziario che possono condizionare l'esercizio delle funzioni o comunque compromettere l'immagine del magistrato. 

In questo modo, il legislatore ha inciso complessivamente sulla definizione della natura della responsabilità disciplinare, su quelli che ne sono i presupposti e su aspetti procedimentali, andando a sviluppare il quadro costituzionale di riferimento circa i rapporti tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato.  

La nuova disciplina, tuttavia, è stata oggetto di opinioni contrastanti. 

Al riguardo, la Sezione disciplinare del CSM, con ordinanza dell’ 11 novembre 2008, ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 25 febbraio 2006, n. 109.25. 

Detta disposizione, introducendo un divieto formale ed assoluto all’associazionismo politico dei magistrati, andrebbe ben oltre la previsione costituzionale di regolamentazione della materia, ledendo, in ultimo, quanto disposto dalla Costituzione stessa, circa la garanzia dei diritti inviolabili, riconosciuti ad ogni individuo sia singolarmente sia nelle varie formazioni sociali.  

Con sentenza n. 224 del 2009, la Corte ha deliberato nel senso della non fondatezza della questione, argomentando che: «non è ravvisabile alcuna violazione dei parametri evocati in quanto, nel disegno costituzionale, l'estraneità del magistrato alla politica dei partiti è un valore di particolare rilievo, che mira a salvaguardare l'indipendente esercizio delle funzioni giudiziarie». 

Con questa decisione, la Corte ha ribadito il principio per cui il magistrato deve essere soggetto unicamente alla legge, rimanendo scevro da commistioni con le dinamiche partitiche. 

Il fulcro del ragionamento della Corte va ricondotto alla necessità di trovare un corretto equilibrio tra due prerogative fondamentali inerenti la figura del magistrato: da un lato, quello di poter apertamente manifestare la propria affiliazione politica; dall’altro, quello di imparzialità, la quale si esplicita non solo nello svolgimento delle proprie funzioni, ma anche in maniera ancillare, andando a limitare anche determinate prerogative che rientrano nella sfera personale.   

In questo modo, la Corte ha voluto garantire la tutela di una particolare categoria, anche a scapito dell’esercizio dei diritti, pur fondamentali, dei singoli magistrati.  

Nonostante il garantismo circa le limitazioni alla libertà di associazione previste per i magistrati, l’ordinamento italiano lascia un vuoto normativo in tema di militanza politica al di fuori dei partiti. 

Infatti, non si riscontra una norma che preveda una limitazione alla eleggibilità e candidabilità dei magistrati.  

La possibilità di accedere alle cariche elettive è, infatti, generalmente garantita dall’articolo 51 della Costituzione a tutti i cittadini in condizioni di eguaglianza, esclusi unicamente i casi di ineleggibilità assoluta previsti dall’ articolo 7 del d.p.r. 361/57, in cui rientrano per la categoria in esame esclusivamente i giudici della Corte Costituzionale. 

Pertanto, le limitazioni inerenti al diritto di iscrizione ad associazioni partitiche potrebbero rivelarsi evanescenti se sprovviste di una esplicita disciplina in tema di candidabilità.  

Infatti, nell’ordinamento italiano, la candidatura alle elezioni politiche ed amministrative non può né deve essere necessariamente correlata al fenomeno della militanza politica, essendovi la possibilità di presentarsi alle urne in maniera indipendente, all’interno delle liste elettorali.  

In questo modo il divieto di libertà di associazione, a tutela dell’imparzialità e dell’indipendenza della magistratura, rischia potenzialmente di essere aggirato, diventando di conseguenza un velo facilmente sollevabile, che mette a nudo le debolezze del sistema. 

Per cio’ che concerne il principio dell’autonomia, in Italia la maggioranza della dottrina definisce il CSM come un organo di rilievo o di garanzia costituzionale, in quanto la sua stessa collocazione nell’art. 104 Cost. indica come la sua finalità precipua sia la salvaguardia della indipendenza e della autonomia del potere giudiziario. 

In Italia vi è all’interno del CSM (almeno fino a quando la prossima riforma voluta da Nordio, non ne parifichera’ il numero alla componente laica) la prevalenza della componente togata, ma con una netta distinzione quanto alla sua derivazione, in quanto i togati, che costituiscono i due terzi della componente elettiva, sono eletti «da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie» (art. 104, c. 4, Cost.). 

Quanto alla componente laica, questa è designata interamente dal Parlamento. 

I membri laici devono essere giuristi di elevata professionalità. 

La presidenza dell’organo è affidata al Presidente della Repubblica, ma si tratta di una peculiarità felice, in quanto, come dimostrato dalla prassi largamente prevalente, è volta a garantite al contempo l’indipendenza della magistratura e l’equilibrio tra i poteri dello Stato. 

Il CSM esercita funzioni attinenti alle nomine, alla carriera dei magistrati, alla responsabilità disciplinare, di tipo propositivo e consultivo. 

Notevoli sono le competenze attribuite al CSM italiano, direttamente dalla Costituzione o dalla legge istitutiva.  

L’unica ad essere venuta meno è quella relativa alla formazione dei magistrati trasferita dal CSM alla Scuola Superiore della Magistratura, prevista nel d.lgs. 26 del 2006 e concretamente operante dal 2012, rispetto alla quale il Consiglio mantiene due competenze, e cioe’ la nomina di sette componenti (sei magistrati e un professore) sui dodici membri del Comitato direttivo (gli altri cinque sono nominati dal Ministro della giustizia), e la fissazione delle linee programmatiche annuali. 

Non c’è da stupirsi se il CSM sia stato oggetto di proposte di riforma. 

Per il CSM le questioni principali sono quelle del “correntismo”, consistente nella degenerazione sindacal-corporativa delle associazioni della magistratura, e del manifestarsi di tendenze corporative e carrieristiche trasversali e volte a perseguire interessi particolari e personali anche mediante il contatto diretto con uomini politici o con gruppi di affari esterni alla magistratura. 

Ciò ha ispirato proposte di riforma volte o a cambiare radicalmente il modello costituzionale, come ad esempio la prossima riforma voluta dal Ministro di Grazie e Giustizia Carlo Nordio, di cui si e’ fatto cenno, e che introdurra’, oltre alla separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti, la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura, per ciascuno dei due rami giudiziari, prendendo spunto dall’esempio francese, e a modificare a Costituzione invariata il sistema di elezione della componente togata, l’organizzazione interna del Consiglio e le regole per l’esercizio delle sue competenze. 

Il modello francese di indipendenza ed autonomia 

In Francia, con il sorgere della V Repubblica, si è provveduto a una ridefinizione dei poteri dello Stato, che hanno visto un rafforzamento delle figure del Primo Ministro e del Presidente della Repubblica.  

La Costituzione del 1958 affida proprio a quest’ultimo, infatti, il ruolo di garante dell’indipendenza del potere giudiziario, relegando, al contempo, le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura francese ad un livello suppletivo. 

Sullo sfondo di un rinnovato assetto costituzionale, taluna dottrina ha sostenuto che in Francia la magistratura non rientrasse del novero dei poteri dello Stato.  

Secondo questa tesi, un’interpretazione letterale del Titolo VIII del dettato costituzionale, metterebbe, infatti, in evidenza l’utilizzo dell’espressione “autorità giudiziaria” (“autorité judiciaire”), da parte del costituente, e non, invece, quella di “potere” (“pouvoir”) nella definizione delle competenze della magistratura. 

Tuttavia, il Consiglio Costituzionale ha rilevato l’infondatezza di questo approccio, dal momento che la sovranità nazionale non può prescindere dalla funzione giudiziaria dello Stato. 

La Costituzione francese disciplina all’articolo 64 il principio di indipendenza della magistratura.  

Come nell’esperienza italiana e spagnola, anche in Francia, data la natura programmatica della norma, è prevista la necessità di una legge ad hoc che disciplini lo stato giuridico dei magistrati.  

Il testo di riferimento è costituito dall’ordinanza n. 58-1270, del 22 dicembre 1958, Legge organica sullo statuto della magistratura (Loi organique relative au statut de la magistrature), a cui ha fatto seguito il Decreto 2001/1099, del 22 novembre 2001, relativo nello specifico alle modalità di selezione del magistrato. 

In Francia, la formazione dei magistrati è affidata alla École Nationale de Magistrature di Bordeaux, un centro nazionale di studi giudiziali, creato agli inizi della V Repubblica, nel dicembre 1958.  

Si tratta di un metodo che ha garantito alla Francia dell’ultimo cinquantennio di avere una buona funzione pubblica e di preservare sempre una forma di competenza dei magistrati.   

Detta legge organica regola l’incompatibilità tra la funzione giudiziaria e lo svolgimento della funzione politica.  

Tuttavia, essa non sancisce un limite espresso alla libertà di associazione partitica o sindacale dei magistrati, come nel caso italiano e spagnolo, ma esclusivamente impedisce che la stessa possa divenire fonte di una militanza attiva o ancora che possa sfociare in manifestazioni pubbliche. 

Nel Primo Capitolo (Dispositions générales) dalla Loi Organique relative au statut de la magistrature viene definito il perimetro delle libertà garantite a questi particolari cittadini. 

L’ordinamento francese vuole dare ai magistrati le stesse libertà pubbliche garantite alla generalità dei cittadini, seppur con determinati limiti, a garanzia dell’imparzialità della carica che ricoprono.   

L’articolo 8, modificato con Legge 2001–539 del 26 giugno 2001, prevede che l'esercizio delle funzioni giurisdizionali sia incompatibile non solo con l'esercizio di qualsiasi altra funzione pubblica, ma anche con qualsiasi altra attività professionale.  

In base all’articolo 8 della Legge organica sullo statuto della magistratura, vi sono eccezioni individuali che possono essere concesse ai singoli magistrati per svolgere funzioni o attività che non sarebbero suscettibili di compromettere la dignità e l'indipendenza degli stessi.  

Inoltre, anche senza previa autorizzazione, ogni magistrato può impegnarsi nella ricerca scientifica, letteraria o artistica.   

A completare il quadro giuridico di riferimento, l’articolo 9 del medesimo testo, modificato con Legge organica n. 504/2010 del 28 giugno del 2010, definisce nello specifico i singoli casi di incompatibilità per la figura del magistrato.  

Essa non solo deve prescindere dall’esercizio di cariche di natura politica, quale quella parlamentare, ma anche da cariche ancillari in seno al Conseil Eco-nomique et Social, organo consultivo in materie economiche, sociali e culturali, con potere di intervento durante il procedimento legislativo.  

La disciplina dell’Articolo 9 della Loi Organique relative au statut de la magistrature prevede che le limitazioni alla candidatura dei magistrati siano vigenti sia con riferimento al Parlamento nazionale che a quello europeo. 

L’Articolo 9 della Loi Organique relative au statut de la magistrature prevede che, a livello territoriale, l'esercizio delle funzioni giudiziarie sia incompatibile con lo svolgimento di un mandato da consigliere regionale, consigliere generale, consigliere comunale o assessore di quartiere, nonché consigliere di Parigi o un membro dell'Assemblea della Corsica.  

A livello extra-territoriale, invece, un magistrato non può essere membro del Congresso o della Provincia della Nuova Caledonia, rappresentante nell’Assemblea della Polinesia francese, membro dell'Assemblea territoriale di Isole Wallis e Futuna, consigliere territoriale di Saint Barthelemy e di Saint Martin, consigliere generale di Mayotte e di Saint Pierre e Miquelon, o ancora non può ricoprire la posizione di membro del Governo della Nuova Caledonia della Polinesia francese.     

Inoltre, ai sensi del medesimo articolo, è fatta esclusione che un magistrato possa essere chiamato a svolgere servizio presso un tribunale, nella cui giurisdizione sia stata esercitata da meno di cinque anni una carica elettiva pubblica.  

Oltre ai limiti personali, l’articolo 9 della Loi Organique relative au statut de la magistrature pone limiti anche circa i coniugi.  

Infatti un soggetto non può essere nominato magistrato all’interno di una giurisdizione che coincida in tutto o in parte con l’ambito territoriale in cui il compagno sia eletto deputato o senatore dello Stato.  

Infine, a chiudere lo specchio dei limiti previsti dal sistema francese, l’articolo 10 della legge organica in esame proibisce ai magistrati di prendere parte diretta alle deliberazioni politiche.  

In caso di violazione di uno dei divieti prescritti, è prevista un’azione disciplinare nei confronti del magistrato, secondo quanto disposto dal Capitolo VII della medesima legge organica. 

Al riguardo, un’attività di monitoraggio sull’intero potere giudiziario è svolta dal Ministro della Giustizia, il quale può opporsi a determinate attività svolte da un magistrato, quando ritiene che, per la natura o per le condizioni di esercizio, siano in contrasto con l'integrità della funzione giudiziaria, col rischio di creare nocumento al normale e corretto funzionamento della giustizia.  

Quanto all’autonomia del potere giudiziario, del tutto peculiare è la natura del Conseil in Francia, il quale è previsto dalla Costituzione, ma, ai sensi dell’art. 64 Cost., svolge una funzione ausiliaria in quanto assiste il Presidente della Repubblica che è garante dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria. 

In Francia il CSM è caratterizzato dall’esistenza dal 1993 di due diverse «formazioni», una competente per i giudici, l’altra per i pubblici ministeri, le quali dopo la riforma costituzionale del 2008 vedono al proprio interno una prevalenza dei componenti non magistrati che sono otto, mentre i togati sono sette, di cui il Presidente membro di diritto (nelle due formazioni rispettivamente il Primo Presidente e il Procuratore generale presso la Corte di cassazione) e sei magistrati elettivi (rispettivamente cinque giudici e un pubblico ministero e cinque pubblici ministeri e un giudice).  

Infine anche nella seduta plenaria del Consiglio, prima affermatasi nei fatti, poi istituzionalizzata dalla riforma del 2008, gli otto “laici” prevalgono sui tre giudici e i tre pubblici ministeri provenienti dalle due formazioni, ai quali va aggiunta la presidenza attribuita al Presidente della Corte di cassazione. 

La parità è garantita solo quando le due formazioni agiscono come consigli di disciplina in quanto in tal caso ciascuna delle due comprende il giudice o il pubblico ministero appartenente all’altra formazione. 

Quanto alla componente laica, questa è è designata da autorità monocratiche (due sono nominati dal Presidente della Repubblica, ed altri quattro sono designati due ciascuno dal Presidente dell’Assemblea nazionale e dal Presidente del Senato). 

Non è richiesto che i membri laici siano giuristi di elevata professionalità, dove degli otto laici, a parte un consigliere di Stato e un avvocato, altri sei nominati dalle autorità monocratiche sono «personalità qualificate» non appartenenti al Parlamento, all’ordine giudiziario e a quello amministrativo. 

La presidenza dell’organo è affidata al Presidente della Corte Suprema per la formazione competente per i giudici (mentre in quella competente per i pubblici ministeri spetta al Procuratore generale). 

Ben diversa era la situazione in Francia in passato (rispettivamente fino alle revisioni costituzionali del 2008 e del 1982), poiche’ la carica di Presidente del Consiglio Superiore di Magistratura spettava al Presidente della Repubblica, poi escluso anche quale membro di diritto.  

Tuttavia rimane l’anomalia dell’attribuzione della funzione di garanzia della indipendenza della magistratura a un Presidente eletto dal popolo, che è organo di vertice del potere esecutivo e titolare dell’indirizzo politico, anomalia che si è proposto di eliminare, insieme all’affermazione esplicita della indipendenza del potere giudiziario da ogni altro potere, da parte di una Commissione di inchiesta istituita dall’Assemblea nazionale, che ha depositato la sua relazione il 2 settembre 2020. 

Il Consiglio esercita funzioni attinenti alle nomine, alla carriera dei magistrati, alla responsabilità disciplinare, di tipo propositivo e consultivo. 

E tuttavia Le competenze del Conseil francese sono più limitate, rispetto al CSM italiano.  

Più significative sono quelle della formazione competente per i giudici, che propone le nomine dei magistrati più importanti, esprime un parere vincolante (avis conforme) per le altre e svolge il ruolo di consiglio di disciplina.  

Invece la formazione per i magistrati del parquet si limita a formulare un parere non vincolante (avis simple) sulle nomine e sulle sanzioni disciplinari di competenza del Ministro della Giustizia.  

Limitate sono anche le funzioni attribuite alla riunione plenaria che riguardano la deontologia dei magistrati e le questioni relative al funzionamento della giustizia su richiesta del Ministro. 

Di grande vivacità è il dibattito sulla riforma del CSM in Francia, che si è manifestato di recente attraverso diversi progetti di revisione costituzionale incentrati principalmente sul ruolo del Consiglio quale organo che sia chiamato a garantire l’indipendenza della magistratura e sull’equiparazione delle competenze relative ai magistrati du siège e du parquet. 

Il modello spagnolo di indipendenza e di autonomia 

Nell’ordinamento spagnolo, il potere giudiziario è l’unico dei poteri statali ad aver ricevuto dal legislatore costituente del 1978 la qualifica effettiva di “poder”. 

Secondo l’articolo 117 c. 1 della Costituzione spagnola, la giustizia emana dal popolo ed è amministrata nel nome del Re dai Giudici e Magistrati che fanno parte del potere giudiziario, indipendenti, inamovibili, responsabili e sottomessi unicamente all’imperio della legge.  

I principi espressi dal legislatore spagnolo del 1978 vengono tramandati dal testo della pregressa Costituzione di Cadice del 1812, la quale istituì per la prima volta la soppressione del pluralismo giurisdizionale, concependo l’unità come rimedio atto a superare privilegi e particolarismi, nonché come presupposto per l’indipendenza del potere giudiziario. 

In Spagna la necessità di definire un perimetro entro cui circoscrivere le libertà della magistratura può essere fatta risalire alla Ley Orgánica del Poder Judicial del 1870.  

Dai lavori preparatori dell’epoca, infatti, è possibile rilevare le prime preoccupazioni espresse dal legislatore spagnolo sulla rischiosità insita nella vicinanza dei giudici al correntismo politico.  

In questa sede, fu evidenziato come fosse opportuno per i magistrati mantenere una distanza tanto dalla sfera politica quanto dalle passioni partitiche.  

Un giudice politicamente schierato non può spogliarsi di tale condizione, divenendo un candidato non più credibile ad amministrare correttamente la giustizia, soprattutto nel caso di interessi confliggenti all’interno di un processo 

La necessità di mantenere una separazione tra la sfera politica e giudiziaria fu recepita dalla Costituzione del 1978, con il chiaro obiettivo di restituire un’immagine di indipendenza e imparzialità al potere giudiziario dopo il periodo franchista, in cui anche l’operato della magistratura venne asservito alle prerogative del regime. 

Tale consapevolezza si tradusse nella necessità di codificare espressamente il principio di indipendenza del potere giudiziario, che ha trovato la sua collocazione nel Titolo VI della carta costituzionale.  

Parallelamente, a fondamento della legittimazione del potere giudiziario, la Costituzione spagnola optò per un sistema concorsuale di accesso alla carriera, disciplinato dal combinato disposto degli articoli 23, c. 2 e 103, c. 3, che potesse fungere da barometro per il grado di indipendenza del sistema giudiziario. 

Il costituente spagnolo, come nel caso italiano, ha affrontato apertamente il tema dell’opportunità di introdurre limiti alla libertà di associazione partitica dei magistrati.  

Durante i lavori preparatori del testo costituzionale, in seno alla Commissione per le questioni costitu-zionali e le libertà pubbliche (Comisión de Asuntos Constitucionales y Libertades Públicas) del Congresso, emersero pareri contrastanti all’introduzione di una norma ad hoc.  

Sia il Partito Socialista (Partido Socialista) sia l’Unione di Centro Democratico (Unión de Centro Democrático) sollevarono obiezioni alla disciplina in esame, trattandosi non tanto di un limite, quanto della soppressione di una libertà normalmente garantita ai cittadini. 

Per contro, sia i partiti di centro sia di centro-destra si fecero portatori di istanze di imparzialità del potere giudiziario, affinché si potesse recuperare fiducia nella giustizia da parte dei consociati.  

In questo contesto si colloca la redazione dell’articolo 127, c. 1 della Costituzione, il quale prevede che i Pretori e Magistrati, come pure gli addetti alla Pubblica Accusa, nel tempo in cui svolgono le loro funzioni, non potranno disimpegnare altri pubblici incarichi né appartenere a partiti politici o sindacati. 

La legge stabilirà il sistema e le modalità di associazione professionale dei Pretori, Magistrati e addetti alla Pubblica Accusa.  

La disciplina introdotta dal costituente spagnolo prevede un limite più stringente alla partecipazione attiva alla politica da parte dei magistrati rispetto all’ordinamento italiano.  

Essa non solo vieta l’affiliazione partitica, ma impone altresì un divieto alle candidature, fermo restando il diritto di esprimere il proprio voto. 

Nonostante il quadro costituzionale delineato limitasse l’esercizio simultaneo della funzione giudiziaria e politica, lo stesso lasciava aperta la possibilità che i rispettivi incarichi potessero essere svolti in momenti differenti.  

Secondo l’articolo 352 della Ley Orgánica del Poder Judicial del 1985 era possibile richiedere una c.d. “condición de servicio especial” dalla carica giudiziaria per poter ricoprire le seguenti cariche: Presidente del Governo; Ministro o altre funzioni ministeriali; deputato o senatore dello Stato o membro delle Assemblee legislative delle Comunità Autonome.  

Terminato l’incarico politico o rappresentativo, il magistrato aveva poi a disposizione venti giorni per la reintegrazione nel proprio ruolo in seno al potere giudiziario. 

Questa disciplina fu particolare fonte di dibattito, anche alla luce di candidature di magistrati di alto profilo, quale quella di Baltasar Garzón che, nella funzione di giudice della Audiencia Nacional, si presentò alle elezioni generali del 1993 come candidato del Partito Socialista.  

Una riforma normativa, ritenuta opportuna da più parti, arrivò con la Legge 5/1997 del 4 dicembre 1997, a modifica del testo della Ley Orgánica del Poder Judicial.  

Secondo la nuova disciplina, ogni giudice o magistrato che intenda ricoprire incarichi politici ha l’obbligo di comunicarlo al Consejo General del Poder Judicial, che, ex articolo 358, dispone una cessazione forzosa dell’attività giudiziaria per un arco temporale di tre anni.  

Ugualmente, anche coloro i quali decidano di intraprendere la carriera giudiziaria successivamente allo svolgimento di incarichi politici sono soggetti ad un analogo periodo di cessazione forzosa ex articolo 357.6 LOPJ.  

Il periodo triennale di astensione dall’esercizio di attività giudiziaria vuole fungere non solo da deterrente allo svolgimento dell’attività politica da parte dei giudici, ma mira anche a creare una sorta di “decompressione” del fenomeno della politicizzazione.  

In questo modo, pertanto, l’ordinamento cerca di preservare l’indipendenza e l’imparzialità dell’autorità giudiziaria a fronte del potere politico. 

Anche dal punto dell’autonomia in Spagna abbiamo specifiche peculiarita’. 

In Spagna è la legge organica n. 2 del 1979 sul Tribunale costituzionale a ricomprendere tra gli organi costituzionali che possono sollevare conflitti tra i poteri anche il Consejo general del poder judicial. 

La composizione dei Consiglio è mista in Spagna come in Italia vi è una prevalenza della componente togata, ma con una netta distinzione quanto alla sua derivazione. 

In Spagna i dodici membri togati dopo la legge organica n. 6/1985, che ha modificato la l. o. n. l/1980, sono eletti dalle Cortes a maggioranza qualificata, anche se dal 2001 su un numero triplo di candidature presentate dalle associazioni dei giudici o da un numero minimo di giudici indipendenti.  

Ciò ha determinato una forte politicizzazione e un funzionamento spartitorio del Consiglio, che si riflette nelle decisioni che è chiamato ad assumere, e anche la proroga della sua durata quinquennale derivante dalla difficoltà di trovare accordi tra i partiti anche in conseguenza del cambiamento di ruoli tra maggioranza e opposizione. 

La componente laica è designata dal Parlamento e i membri laici devono essere giuristi di elevata professionalità.  

La presidenza dell’organo è affidata al Presidente della Corte Suprema per la formazione competente per i giudici (mentre in quella competente per i pubblici ministeri spetta al Procuratore generale). 

Il Consiglio esercita funzioni attinenti alle nomine, alla carriera dei magistrati, alla responsabilità disciplinare, di tipo propositivo e consultivo. 

Il Consiglio in teoria più “forte” sembra essere quello spagnolo, che è titolare di competenze importanti, quali la designazione di due membri del Tribunale costituzionale, la funzione ispettiva sugli uffici giudiziari e la direzione della Escuela Judicial. 

Il Consiglio summenzionato e’ stato oggetto di proposte di riforma, alcune delle quali indicate nei contributi specifici che li riguardano. 

Il problema che viene ampiamente lamentato nei confronti del Consiglio spagnolo è l’eccessiva politicizzazione derivante dalla elezione parlamentare dei componenti togati. 

Indipendenza ed autonomia in Germania e Paesi nordici 

La Germania e i Paesi nordici presentano alcune caratteristiche comuni e vari elementi di differenziazione.  

Infatti tali ordinamenti condividono l’attribuzione al Governo e in particolare al Ministro della giustizia delle competenze fondamentali in materia di funzionamento del sistema giudiziario e di nomina dei magistrati.  

D’altro lato l’indipendenza dei giudici, derivante dal principio della separazione dei poteri, e il principio di inamovibilità sono sanciti a livello costituzionale.  

Nessuno degli ordinamenti in questione prevede l’esistenza di un Consiglio di giustizia incaricato di garantire l’indipendenza del potere giudiziario.  

Tuttavia nel tempo sono stati costituiti una pluralità di organismi di diversa natura e composizione che intervengono su vari aspetti dell’organizzazione giudiziaria e della vita professionale dei magistrati. 

In Germania una differenza fondamentale rispetto agli Stati nordici deriva dalla natura federale dello Stato, nel quale la giustizia costituisce una competenza concorrente tra Bund e Laender.  

Ciò determina la formazione di commissioni per la nomina dei giudici e di organi interni alla magistratura a livello sia federale sia statale.  

La nomina dei giudici delle Corti supreme federali spetta al Ministro federale competente insieme ad una Commissione composta dai ministri dei Laender e da un pari numero di membri eletti dal Bundestag, che nella prassi sono di regola parlamentari e mai giudici.  

I giudici statali sono nominati dai Ministri della giustizia dei rispettivi Laender, ma questo può essere assistito da Commissioni per la selezione dei giudici, che attualmente esistono in nove Laender su sedici e sono composte di solito anche da giudici designati dai loro colleghi e poi eletti dai rispettivi Parlamenti statali. 

Le Commissioni si pronunciano sulle proposte formulate dal Ministro, il quale è libero di decidere in materia anche in modo difforme.  

Tuttavia il ruolo determinante delle autorità ministeriali sia nella nomina dei giudici sia nella gestione amministrativa e finanziaria dei tribunali non pregiudica l’indipendenza dei giudici.  

Ciò è dovuto sia a previsioni costituzionali, come l’art. 97 GG per il quale i giudici sono indipendenti e soggetti soltanto alla legge e l’art. 98 GG che richiede per i giudici una disciplina speciale che li differenzi dagli altri funzionari pubblici, sia al self-restraint svolto dalla politica che non si ingerisce nell’esercizio della funzione giurisdizionale. 

Vi sono poi presso i tribunali due organi, presieduti dal Presidente dell’ufficio e composti interamente da giudici a questo appartenenti, il primo dei quali (Präsidien) decide sull’organizzazione dell’ufficio e sulla ripartizione degli affari giudiziari tra i magistrati, mentre il secondo (Präsidialräte) esercita una funzione consultiva, di intensità variabile nei Laender, su promozioni e trasferimenti dei giudici.  

Infine è previsto un Tribunale federale per gli affari disciplinari (e analoghi organi nei Laender), composto dal Presidente della Corte federale di giustizia che lo presiede e da altri quattro magistrati, che, oltre ad esercitare la competenza in materia disciplinare, tutela i giudici nei confronti di atti di controllo gerarchico o che possano attentare alla loro indipendenza. 

Un importante aspetto che accomuna gli Stati nordici (Danimarca, Finlandia Islanda, Norvegia, Svezia) è rappresentato dalla creazione, in tempi diversi (antesignana è stata la Svezia nel 1975, ultima la Finlandia nel 2019) e con varie denominazioni, di un’autorità indipendente dal potere esecutivo, qualificabile come Court Administration, la quale ha il compito di provvedere alla amministrazione e alla gestione finanziaria delle Corti, ma spesso si occupa anche della formazione dei magistrati ed esercita competenze propositive nei confronti del Governo o del Parlamento.  

La composizione è mista con prevalenza di membri togati (ma non in Svezia).  

La designazione dei componenti è molto varia: si va dall’ipotesi rappresentata dalla nomina per intero o in larga parte da parte di autorità non politiche (Danimarca, Svezia, Islanda) a quella in cui la competenza è affidata al Governo (per tutti i membri in Finlandia, per sette su nove in Norvegia, dove i due membri laici sono designati dal Parlamento).  

Nel tempo sono state istituite altre autorità indipendenti che si occupano della nomina dei giudici e delle sanzioni disciplinari.  

I Judicial Appointment Council, o simili, sono previsti in tutti gli ordinamenti, ad eccezione di quello islandese; hanno una composizione mista con membri nominati per lo più dal Governo; esercitano una funzione propositiva nei confronti del Ministro della giustizia o del Governo, che sono le autorità decisionali, anche se di solito queste accettano la proposta avanzata.  

Vi sono poi organismi che adottano le sanzioni disciplinari, con l’eccezione della Finlandia, dove la competenza in materia spetta ai Presidenti dei tribunali, al Ministro della giustizia e all’Ombudsman parlamentare.  

I componenti sono per lo più giuristi provenienti da autorità non politiche (Danimarca e Islanda) o dal Governo (Norvegia e Svezia). 

A differenza degli altri paesi nordici, nell’ordinamento tedesco, le istanze di separazione tra magistratura e politica non si sono tradotte in espresse garanzie costituzionali, con limiti alla libertà di associazione politica dei magistrati.  

Il modello tedesco, frutto di un’evoluzione storica che trae origine dall’esperienza di Weimar, fonda il principio dell’indipendenza dei giudici sul parametro dell’inamovibilità, al fine di evitare passaggi tra la magistratura giudicante ed inquirente.  

Nel contesto europeo la Germania rappresenta un vero caso d’eccezione, non essendo dotata di un Consiglio superiore di Giustizia.  

La magistratura tedesca è organizzata secondo una struttura piramidale, al vertice della quale vi sono i superiori gerarchici, ed in ultimo fa capo ai Ministeri di Giustizia dei singoli Land. 

Gli unici organismi che possono es sere assimilabili ai Consigli nell’ordinamento tedesco sono le Commissioni per la scelta dei giudici, presenti solo in alcuni Lander, con composizione e modalità diverse di funzionamento.  

Esse tendenzialmente si pronunciano sulle proposte di promozione effettuate dal Ministro, ma si dimostrano essere organi fortemente esposti alla politica, essendo formati, oltre che da magistrati o avvocati, da una maggioranza di parlamentari. 

Sul piano disciplinare, invece, la competenza è attribuita al Consiglio di disciplina dei magistrati, organo composto per intero da giudici, istituito con Legge 1/07/1962, costituito dal Presidente della Corte Federale di Giustizia, da altri due magistrati della medesima Corte e da altri due membri della magistratura ordinaria.  

Quest’organo è il principale conoscitore della materia disciplinare, oltre ad essere garante dell’indipendenza dei singoli giudici da fenomeni di controllo gerarchico. 

Inizialmente, con la Legge Fondamentale della Repubblica Federale di Germania, del 23 maggio 1949, era prevista all’articolo 137, c. 1 la possibilità di limitare, con Legge dello Stato, il diritto di associazione politica di funzionari e impiegati pubblici, di soldati volontari e di carriera, ed infine dei giudici. 

Tuttavia, con l’approvazione della Legge Giudiziaria (Gesetzlich Vorgesehen) del 1961, venne introdotta una nuova disciplina, tuttora vigente, che ha aperto a un approccio maggiormente permissivo.  

L’articolo 39 prescrive, infatti, per i magistrati la necessità di attenersi a una condotta tale da non ledere l’indipendenza o la fiducia che la società vi ripone, anche nello svolgimento di attività o funzioni politiche.  

E’ evidente, pertanto, che il sistema non proibisce a priori la militanza di un giudice in politica, ma ne limita esclusivamente la portata. 

In Germania vige una distinzione delle modalità di partecipazione di un giudice ai partiti politici, a seconda che svolga un ruolo di semplice affiliazione, prettamente passivo, o che svolga un ruolo di militanza attiva. 

All’interno della sfera giudiziaria, si stima una partecipa-zione del 20% dei giudici alla vita politica e partitica del Paese, che si realizza perlopiù come un fenomeno di mero associazionismo passivo, scevro dall’assunzione di incarichi attivi. 

Nonostante la marginalità del fenomeno, la dottrina tedesca non ha mancato di rilevare come fosse il concetto stesso di associazione partitica per se a minare le basi di neutralità, separatezza e obiettività del potere giudiziario. 

La questione, pur nascendo come motivo di reazione al rischio di limitazione della libertà di pensiero dei magistrati, particolarmente presente durante il periodo autoritario, si è spostata in chiave moderna sul piano delle garanzie del potere giudiziario.  

Questa tendenza, tuttavia, rischia di determinare un’inevitabile politicizzazione del potere giudiziario tedesco, a scapito delle garanzie a tutela della società nel suo insieme, in qualità di beneficiaria ultima dell’attività giudiziaria. 

Nel modello costituzionale tedesco, pertanto, viene meno il garantismo giuridico che caratterizza gli altri Paesi europei finora esaminati, in quanto le relazioni tra potere giudiziario e politico si atteggiano in una maniera del tutto inedita.  

La protezione maggiormente efficace contro un’invasione reciproca delle due diverse sfere deve ricercarsi in un’autorestrizione da parte del giudice, attraverso una piena consapevolezza del proprio ruolo e delle proprie funzioni.  

Egli è infatti un amministratore neutrale, c.d. sachwalter, del diritto, al servizio della società, soggetto unicamente alla legge.  

Al riguardo, il potere giudiziario tedesco si è sempre opposto unanimemente alla manipolazione politica a danno dei magistrati, rappresentando un vulnus al principio di indipendenza della categoria.  

L’indipendenza dei magistrati resta, infatti, un principio costituzionale, cardine della Legge Fondamentale tedesca, la quale all’articolo 97.1 ne garantisce la soggezione unicamente alla legge. 

In questo senso, nel 2008 vi è stata la rimozione di un giudice onorario facente parte di un gruppo musicale di estrema destra, filo-nazionalsocialista.  

Nella sua decisione, la Corte costituzionale tedesca ha rimarcato come le condizioni di onorabilità e di fedeltà alla Costituzione rappresentino due requisiti imprescindibili allo status di magistrato, sia che esso sia togato, sia che esso sia onorario. 

Autonomia ed indipendenza nei paesi di tradizione anglosassone 

Tra i quattro ordinamenti anglosassoni presi in considerazione (Inghilterra e Galles, Scozia, Canada, India) vi sono, pur nel quadro dell’ancoraggio al sistema di common law di origine britannica, anche alcune differenze.  

Tra queste meritano di essere segnalate la natura mista del diritto scozzese, che risente parzialmente dell’influenza della sua matrice romanistica, il carattere federale dello Stato in Canada e in India, che dà vita a corti e tribunali di diverso livello territoriale, il ruolo determinante svolto in questi due ordinamenti dalla Corte suprema non solo come organo giudiziario di vertice, ma anche come giudice costituzionale (anche se si può riscontrare un’evoluzione in tale direzione della Corte suprema inglese istituita in seguito al Constitutional Reform Act del 2005). 

Molto significative sono le convergenze relative all’assetto della magistratura e al sistema delle nomine.  

In primo luogo la magistratura è dotata di una grande autorevolezza che deriva dalla sua appartenenza ad una corporazione caratterizzata da un forte spirito di appartenenza ed è strettamente collegata al mondo dell’avvocatura nel quadro di un sistema professionale fondato sulla circolazione tra gli appartenenti alle professioni legali.  

In secondo luogo, anche laddove non venga proclamata apertamente l’esistenza di un potere giudiziario, l’indipendenza e l’autonomia dei giudici sono salvaguardate dal principio della inamovibilità, che, fin dall’Act of Settlement del 1701, ne consente il mantenimento in carica «during Good behaviour», e rende estremamente improbabili i casi di rimozione dalla carica prima della scadenza del mandato.  

In terzo luogo le nomine dei giudici sono compiute formalmente dalla più alta carica dello Stato (la Regina per i giudici di più alto livello in Inghilterra e Galles e in Scozia, il Governatore generale in Canada, il Presidente in India), ma nella sostanza derivano dal potere esecutivo.  

Tuttavia ciò non comporta una subordinazione né un condizionamento dei giudici, sia per la loro già rilevata autorevolezza personale, sia per il self-restraint della politica che non si ingerisce nell’attività giudiziaria e rispetta le decisioni giurisdizionali.  

Infine altro aspetto comune è l’inesistenza di veri e propri Consigli di giustizia. 

Tuttavia non mancano istituzioni indipendenti composte interamente da giudici. 

Tali sono il Judges Council of England and Wales, istituito nel 1988 e il Judicial Council for Scotland, istituito nel 2007, i quali, oltre a dare linee guida per l’attività dei giudici e a promuovere i loro interessi professionali, esprimono pareri all’organo di vertice del potere giudiziario.  

In Canada va segnalata la costituzione nel 1971 del Canadian Judicial Council, presieduto dal Chief Justice e composto interamente da magistrati, che esercita una funzione disciplinare nei confronti dei giudici federali, mentre nei confronti dei giudici provinciali esistono Judicial Councils territoriali, e dagli anni novanta ha adottato programmi e nel 2008 anche linee guida per la formazione dei giudici.  

Tuttavia negli ultimi decenni si è verificato un parziale ridimensionamento del potere sostanziale esercitato dalle autorità politiche lungo due direttrici.  

La prima è consistita nella valorizzazione del ruolo dell’organo di vertice del potere giudiziario (il Chief Justice in Inghilterra e Galles, il Lord President in Scozia che in quanto Justice General presiede la High Court of Justiciary, il Presidente della Corte suprema in Canada e in India), con parziale riduzione di quello del Ministro della giustizia, funzione svolta in Inghilterra e Galles dal Lord Chancellor, e di una personalità come in Scozia il Lord Advocate, incaricata di partecipare sia al potere giudiziario (nella veste di Public Prosecutor) sia a quello esecutivo in funzione consultiva. 

La seconda direttrice è rappresentata dalla costituzione di appositi organismi incaricati di concorrere alla nomina dei giudici.  

Si tratta di commissioni che hanno una composizione mista (giudici, rappresentanti delle professioni forensi, laici di nomina politica) che svolgono una funzione propositiva nei confronti dei titolari del potere di nomina attraverso un procedimento complesso e in Inghilterra e Galles con modalità diversificate.  

In ordine di tempo si costituiscono in Canada nel 1988 i Judicial Advisory Committees, operanti in ogni Provincia, che redigono una graduatoria dei candidati relativa alla rispettiva competenza territoriale, poi trasmessa al Ministro della giustizia che formula la proposta al Cabinet poi sottoposta al Governatore generale.  

Segue poi in Scozia nel 2002 la formazione del Judicial Appointment Board, poi modificato dal Judiciary and Courts (Scotland) Act 2008, che svolge una funzione istruttoria e propone i nomi dei candidati alle cariche all’Esecutivo e al Lord President, poi sottoposta alla Corona per i componenti delle Alte Corti.  

Infine in Inghilterra e Galles viene istituita nel 2006 la Judicial Appointemnt Commission, successivamente riformata dallo Statutory Instrument 2012/2192, che solo per i giudici inferiori opera come plenum, mentre la selezione e la formulazione delle proposte al Lord Chancellor relative alle cariche superiori di vario livello è affidata a quattro diversi panel, ciascuno composto da cinque membri.  

Solo in India non si rinviene l’esistenza di un organismo analogo.  

Tuttavia non è mancato il tentativo di dare vita con un emendamento costituzionale del 2014 ad una National Judicial Appointment Commission, composta da quattro membri di diritto (il Chief Justice chiamato a presiederla, i due giudici più anziani della Corte suprema e il Ministro della giustizia) e due personalità designate da un comitato misto, e incaricata di svolgere una funzione propositiva dei giudici di livello più elevato e in materia di trasferimenti.  

Ma nel 2016 la Corte suprema ne ha sancito l’illegittimità costituzionale in quanto non garantiva la presenza maggioritaria dei magistrati.  

Occorre tuttavia considerare il ruolo importante, attribuito alla procedura di consultazione da parte del Presidente e dei componenti della Corte suprema per la nomina dei giudici di grado superiore, e dello stesso Chief Justice, del Governatore dello Stato e dei Presidenti delle Alte Corti statali per la nomina dei componenti di queste ultime.  

In conseguenza a tre diverse sentenze della Corte suprema, tra il 1982 e il 1998, è stata affermata nella procedura di consultazione l’esistenza di un sistema collegiale e la prevalenza del parere dei magistrati, e in particolare di quello del Chief Justice, sull’advice formulato dal Governo. 

Indipendenza ed autonomia dei giudici negli USA 

Un discorso parzialmente diverso va fatto per le caratteristiche del sistema giudiziario e le nomine dei giudici negli Stati Uniti d’America, che richiederebbe un’analisi e un approfondimento più ampi di quanto sia possibile in questa sede. 

Aspetti comuni con gli altri ordinamenti anglosassoni sono rappresentati dal forte spirito di appartenenza e di identità corporativa della magistratura e dalla sua provenienza dalle professioni legali (e in particolare dall’avvocatura) e dalle Università più prestigiose.  

Le nomine sono di natura più apertamente politica di quella che caratterizza gli altri ordinamenti anglosassoni.  

I procuratori federali sono nominati dal Presidente con il consenso del Senato, mentre quelli statali, di distretto e di contea sono eletti dai cittadini sulla base di un programma di amministrazione della giustizia penale che è oggetto dell’approvazione popolare.  

Ciò, insieme alla forte discrezionalità che hanno nell’esercizio dell’azione penale, li connota quali attori collegati alla politica e al mondo delle lobbies.  

La carica è a tempo determinato e una parte di loro diventano successivamente giudici o entrano direttamente in politica.  

I giudici federali, che sono un numero ridotto (seicentocinquantasette), vengono nominati dal Presidente, all’interno di liste predisposte dall’Attorney General.  

Si tratta di una nomina politica e partitica, come dimostra il fatto che la grandissima maggioranza dei nominati appartengono al partito del Presidente. 

Tuttavia su di essa hanno una certa influenza i pareri di giuristi autorevoli e dell’American Bar Association.  

Inoltre il richiesto consenso del Senato non è sempre scontato, anche per la prassi della senatorial courtesy, che dà particolare rilevanza al parere dei senatori dello Stato nel cui distretto il giudice presterà servizio.  

In sostanza anche i giudici federali costituiscono una corporazione fortemente legata a interessi professionali ed economici e a orientamenti politici.  

Tuttavia grazie alla loro autorevolezza personale e professionale godono di una relativa autonomia, che è rafforzata dal principio della inamovibilità, che non vale per i procuratori e per i giudici statali i quali hanno un incarico a tempo determinato e sono esposti alla non conferma nella carica.  

Più variegata è la nomina dei giudici statali, per la quale esistono tre diverse procedure.  

Nella maggioranza degli Stati è prevista l’elezione popolare che politicizza fortemente la scelta.  

In circa un quinto degli Stati i giudici sono nominati dal Governatore o eletti dal Parlamento.  

Infine in circa un terzo degli Stati la procedura è complessa ed è stata applicata per la prima volta dal Missouri nel 1937 (per questo si parla di Missouri Plan).  

In una prima fase una commissione di esperti nominati dal Governatore, ma di fatto scelti dalle associazioni degli avvocati, designa i candidati alla carica. 

Successivamente il Governatore effettua la nomina. 

Infine questa è sottoposta alla votazione popolare, il cui esito è di regola scontato in quanto non vi sono candidature alternative.  

In definitiva negli Stati Uniti vi è una politicizzazione dei magistrati che non si riscontra negli ordinamenti anglosassoni presi in considerazione.  

Ma paradossalmente proprio la loro natura di attori politici, specie se titolari di cariche importanti, contribuisce ad aumentarne l’autorevolezza personale e l’autonomia professionale.  

A ciò si deve aggiungere che l’ipotesi della rimozione dalla carica sia dei magistrati federali, conseguente alla procedura di impeachment, sia di quelli statali, per i quali in alcuni Stati è previsto l’istituto del recall che ne comporta la revoca su iniziativa popolare, è stata utilizzata in rarissimi casi.  

Infine non va mai dimenticato il ruolo centrale nel funzionamento del sistema giudiziario svolto dalla Corte Suprema sia in quanto giudice di ultima istanza, sia come difensore e interprete della Costituzione, rafforzato dalla durata in carica a vita dei suoi membri. 

Il modello di selezione dei giudici attraverso elezione popolare è statisticamente il meno utilizzato nei singoli ordinamenti giuridici.  

Infatti, pur essendo il sistema che maggiormente riesce ad integrare i giudici nel contesto socio-politico in cui operano, è per rovescio quello che più rischia di esporne l’indipendenza alla sfera politica.  

Il meccanismo di selezione popolare dei giudici nacque con la rivoluzione francese, al fine di collegare l’esercizio della giurisdizione alla sovranità popolare, attraverso un sistema elettivo.  

Oggigiorno, questo sistema è adoperato in un numero limitato di Paesi, tra cui, principalmente, gli Stati Uniti, la Russia e il Giappone. 

Sul piano giuridico comparato, gli Stati Uniti d’America costituiscono il principale esempio di magistratura selezionata attraverso voto popolare. 

Il modello statunitense ha radici molto antiche, da ricercare nella Costituzione e nelle dinamiche interne all’ordinamento giudiziario.  

Esso prevede la coesistenza del sistema giudiziario federale con quello di cinquanta Stati federati.  

Anche se ogni sistema è organizzato in maniera indipendente, tutti sono organizzati su tre gradi di giudizio, al cui vertice vi è la Corte Suprema federale.  

I giudici statali possono essere nominati in base a differenti criteri, a seconda del singolo Stato, ma i modelli principali sono due: (a) la nomina da parte del Governatore, istituto che riprende la modalità di selezione federale, che prevede un criterio di selezione ad appannaggio dell’Esecutivo; (b) l’elezione popolare, ad oggi il più utilizzato.  

Trentanove Stati federati, infatti, eleggono i giudici del proprio corpus giudiziario.  

Secondo un criterio statistico il fenomeno del voto popolare nel criterio di selezione dei magistrati cresce soprattutto negli Stati dell’ovest del Paese.  

Nell’alveo di questo modello, un istituto di partecipazione diretta più sfumata è quello del merit plan, che ha acquisito con gli anni un notevole riscontro positivo nell’ordinamento interno statunitense. 

La scelta di optare per un sistema di nomina dei giudici su base elettiva risale al XIX secolo, durante la presidenza Jackson (1829-1837), che non solo aspirava ad un potere giudiziario in linea con la volontà del popolo, ma che fosse altresì responsabile nei suoi confronti.  

Tuttavia, sin dall’epoca, tale meccanismo fu messo in discussione non solo a causa delle forti pressioni sui singoli giudici, legate perlopiù al peso dell’associazionismo partitico in sede di campagna elettorale, ma anche in relazione ai rischi legati alla mancanza di requisiti professionali necessari da parte dei candidati alle singole cariche.  

Al riguardo, secondo quanto asserito da Bertrand Russell: "Quando ai tempi di Jackson, in America, la gente si rese conto di questo pericolo dei giudici che contrastavano la volontà popolare, si decise che bisognava designare i giudici statali per elezione".  

Il rimedio, però, si dimostrò peggiore della malattia. 

L’esposizione del giudice alla sfera politica suscita due principali criticità.  

Da un lato, sussiste il rischio di condizionamento delle decisioni del singolo giudice, pressato dalla necessità di mantenere un appiglio sull’elettorato; dall’altro quello che l’elettorato venga influenzato nelle proprie scelte, portato a scegliere in base a criteri di convenienza.  

In questo modo, il sistema di selezione elettorale dei magistrati andrebbe a creare a una giustizia organizzata unicamente in funzione delle tornate elettorali. 

Il sistema coinvolge circa l’87% dei giudici delle Corti federate dell’ordinamento statunitense.  

Il successo del modello in questione risiede nel fatto che esso crea una relazione biunivoca tra il popolo sovrano e il potere giudiziario.  

Pertanto, attraverso un sistema fondato sulla legittimità popolare, la magistratura viene ad essere al diretto servizio dei consociati, senza la necessità di una mediazione istituzionale, attraverso un meccanismo di accesso concorsuale, come osservato, invece, nei Paesi di civil law.  

L’ordinamento statunitense suole distinguere tra due differenti sistemi di selezione dei magistrati su base elettorale: (a) il sistema partisan e (b) il sistema non partisan.  

Soltanto nel primo caso vige un sistema di associazionismo partitico, essendo consentito ai candidati di presentarsi all’elettorato con il sostegno aperto di un partito politico. 

Nel secondo caso, invece, le candidature restano indipendenti, senza la necessità di un’affiliazione partitica per le candidature.  

In entrambi i modelli, tuttavia, l’ascendente politico può manifestarsi, direttamente o indirettamente, non solo per l’influenza delle forze politiche locali alle urne, ma anche perché spesso gli stessi candidati sono già stati figure politiche o personaggi di rilievo pubblico. 

Per poter opportunamente preservare il sistema da derive clientelari, ciascuno Stato ha attivato appositi meccanismi di tutela. 

In particolare, a garanzia delle prerogative del potere giudiziario, è stato creato un modello di selezione misto, chiamato merit plan o Missouri plan, in quanto messo in atto per la prima volta nello Stato del Missouri nel 1940. 

Si tratta di un sistema di selezione attualmente molto utilizzato che, oltre a prevedere la partecipazione popolare nel processo di selezione dei magistrati, intende anche garantire il merito e le qualità dei singoli.  

E tutto cio’ accadendo nel rispetto della rappresentatività popolare, esso ha lo scopo di assicurare i capisaldi delle virtù professionali dei candidati, mitigando al contempo le istanze di influenza provenienti dalla sfera politica locale.  

Alla base di tale meccanismo vi è l’istituzione di un’apposita commissione, di natura non politica, composta da giudici e avvocati, oltre che da cittadini laici.  

Essa ha il compito di raccogliere in apposite liste le candidature, in media da tre a cinque, per ogni carica vacante, per poi passare in disamina i singoli candidati. 

A seguito di questa prima fase di screening, si passa poi alla fase della nomina, con il coinvolgimento dell’organo esecutivo statale.  

Il Governatore dello Stato, infatti, sulla base delle suddette liste, è chiamato entro sessanta giorni a esprimere una nomina, per un mandato non inferiore all’anno.  

Nel caso in cui il Governatore non provveda, sarà la commissione stessa a deliberare.  

A un anno dalla nomina, il giudice è poi soggetto ad un referendum popolare, la c.d. retention election, per la conferma o meno nel ruolo.  

In particolare, questo è un meccanismo periodico che permette di sottoporre al vaglio popolare il giudice scelto attraverso il merit plan. 

Nel caso in cui la maggioranza dei voti sia negativa, il giudice viene rimosso dal proprio incarico ed il procedimento di selezione inizierà nuovamente; altrimenti, nel caso di una maggioranza di voti positiva, il giudice può entrare a pieni poteri nell’incarico. 

La differenza sostanziale tra il normale procedimento elettivo e la retention election risiede nel fatto che, pur essendo entrambi strumenti di partecipazione democratica diretta del popolo, il primo è il risultato di una scelta effettuata all’interno di una lista di candidati, mentre il secondo si esplicita in una scelta confermativa, dove il candidato non è affiancato da altri concorrenti. 

Il modello in esame è stato utilizzato da una serie di Stati che, anche attraverso un processo di riadattamento, hanno provveduto ad un’implementazione interna sulla base delle rispettive esigenze domestiche.  

La California, ad esempio, ha fortemente modificato la struttura originaria di tale meccanismo selettivo, prevedendo un sistema ibrido di c.d. “nomina assistita”.  

Al Governatore è affidato il potere di selezione dei candidati, potendo scegliere tra una pluralità di individui, selezionati in base a criteri professionali, con una pratica forense pluridecennale.  

Successivamente, un’apposita commissione, la c.d. Commission on Judicial Nominees Evaluation, in seno all’ordine degli avvocati dello Stato della California, valuta i candidati attraverso un parere non vincolante.  

Per le corti superiori dello Stato è prevista un’ulteriore commissione, la c.d. Commission on Judicial Appointments che, riunendosi in seduta pubblica, può confermare o meno i candidati proposti dalla prima commissione.  

In caso di conferma, il giudice può entrare nel ruolo, fermo restando il vincolo della retention election, per il vaglio popolare, che ha luogo dopo un certo periodo temporale, differente in questo caso a seconda del ruolo del candidato. 

Nonostante il Missouri plan abbia apportato maggiore responsabilità nel modello statunitense, lo stesso non è rimasto esente da critiche.  

Tale meccanismo, infatti, finirebbe col dare un eccessivo controllo al ceto forense nel processo di nomina dei giudici, conferendo maggior importanza alla fase di vaglio dei candidati, a fronte di un peso minore nella fase di scelta da parte dei cittadini.  

In questo modo, il sistema rischia inevitabilmente di diventare uno strumento elitario, a scapito del suo carattere originariamente democratico. 

Per queste ragioni, il Missouri Plan è stato più volte criticato per creare un sistema indirettamente dipendente dalla politica che, invece di favorire il voto popolare, istituisce un processo di selezione a “porte chiuse” che rispecchia inevitabilmente le preferenze ideologiche dell’avvocatura piuttosto che della società.  

Il modello della nomina per elezione della componente giudiziaria è un tema tornato in voga anche nel contesto europeo.  

Negli anni ’80, nel sistema spagnolo, il Partido Sociali-sta Obrero Español (PSOE) aveva rilevato la mancanza di legittimazione del potere giudiziario, dal momento che lo stesso non godeva del consenso elettorale a differenza degli altri poteri dello Stato.  

Tale posizione, tuttavia, non riscosse il successo sperato né tra gli altri partiti né in generale tra le istituzioni statali, nella convinzione che una legittimazione popolare, avrebbe potuto influenzare la bontà dell’esercizio del potere giudiziario.  

Nel contesto italiano, invece, risale al 2009 una proposta dell’ex Ministro delle Riforme per il Federalismo, Umberto Bossi, per una magistratura eletta dal popolo.  

Tale possibilità fu esclusa anche nel sistema italiano, riprendendo considerazioni già sollevate in sede costituente, durante i lavori preparatori del Titolo IV della Costituzione.  

In quella sede, si reputò che il modello elettivo non fosse confacente all’ordinamento nazionale, laddove si valutò che l’esigenza della capacità tecnica e dell’idoneità per talune funzioni potesse essere incompatibile con la partecipazione popolare. 

Considerazioni finali 

L’indipendenza e l’imparzialità del potere giudiziario costituiscono due pilastri portanti in uno Stato democratico di diritto, che vuole il giudice soggetto unicamente alla legge.  

In tal modo, l’affiliazione dei singoli magistrati a partiti politici rischia di confliggere con questi presupposti, potendo suscitare la sfiducia dei consociati in quelle che sono le attuazioni e le decisioni dell’organo giudicante. 

Il governo autonomo della magistratura è in parte già in atto o costituisce in vari ordinamenti un orientamento da perseguire.  

La conferma viene dall’esistenza di Consigli di giustizia e, dove questi non vi sono, dalla costituzione di organi o di autorità amministrative, caratterizzati dalla presenza di magistrati, titolari di competenze consultive, ma talora anche decisionali, che comunque rappresentano un limite nei confronti dei poteri politici e incidono sul funzionamento degli uffici giudiziari e sulla vita professionale dei giudici.  

L’importanza in ordinamenti democratici dell’esistenza di organi di governo autonomo è avvalorata a contrario dalla involuzione in atto nelle democrazie illiberali, che tra le misure riduttive delle libertà e delle garanzie includono il ridimensionamento del ruolo dell’organo di governo autonomo o il rigido controllo sulla sua composizione da parte del Governo e della maggioranza parlamentare. 

L’analisi comparativa permette di riscontrare tra le esperienze prese in esame aspetti comuni, ma anche significative differenze relative alla natura giuridica, al fondamento normativo, alla composizione, alle competenze, infine all’incidenza che l’attività di tali organi piò avere sull’attuazione del principio di indipendenza e di autonomia della magistratura e sui rapporti tra il potere giudiziario e gli altri poteri dello Stato.  

Ciò richiede una rinnovata e costante attenzione da parte della dottrina alla quale può utilmente contribuire la riflessione avviata in questo numero della rivista grazie ai contributi qui pubblicati. 

Sia nei sistemi di civil law sia di common law, il principale denominatore comune è costituito dalla difesa dell’inderogabilità del principio di indipendenza e di imparzialità del giudice, quintessenza di tale status.  

Tuttavia, l’indipendenza non necessariamente riflette l’accezione di imparzialità, dal momento che è soprattutto quest’ultima a garantire equità nel momento del giudizio.  

E’ questo, infatti, il presupposto che permette al diritto di associazione di espandersi o comprimersi a seconda dei casi.  

Da questo presupposto, le differenti modalità selettive dei magistrati all’interno dei singoli ordinamenti presi in esame scandiscono le principali differenze nella declinazione della libertà di associazione. 

Nei sistemi giudiziari di natura amministrativa, generalmente diffusi nei sistemi giudiziari di civil law, la legittimazione del giudice si fonda su un modello prestabilito, fondato su criteri puramente oggettivi, volto ad allontanare l’ingerenza politica.  

Essi si basano su una selezione del magistrato mediante concorso, volto a garantire l’idoneità del candidato alla carriera giudiziaria.  

Questo modello mira alla formazione di magistrati dalle alte qualifiche tecniche, in grado da poter garantire al meglio il principio dello iura novit curia, fondamento del diritto processuale antico e moderno.  

Allo stesso tempo, l’accesso alla magistratura, fondato su regole oggettive, conferisce all’organo un’indipendenza e un’imparzialità che potrebbero essere compromesse in altri meccanismi di reclutamento. 

All’interno dei sistemi giuridici di civil law, le garanzie di indipendenza dei magistrati, oltre ad essere formalmente recepite durante la fase di selezione, vengono poi assicurate nel corso della carriera dagli organi di autogoverno. 

Attraverso una struttura piramidale autonoma, i modelli costituzionali presi in esame pongono in essere un modello di salvaguardia tanto esterna quanto interna, atto a preservare il singolo magistrato, soggetto unicamente alla legge, sia dalle ingerenze degli altri poteri dello Stato sia dalle pressioni endogene. 

La libertà di associazione, pur se riconosciuta come libertà fondamentale all’interno delle singole costituzioni degli ordinamenti giuridici analizzati, viene limitata inerentemente a casi specifici, in particolare con riferimento all’associazionismo partitico dei magistrati,  

In questo modo, non solo si vuole garantire l’indipendenza e la terzietà dell’organo giudicante, ma anche preservare la fiducia che i consociati ripongono in esso. 

Nei Paesi di Civil Law presi in esame, vigono limitazioni o proibizioni indicate espressamente dalla legge dello Stato.  

Il legislatore costituzionale, infatti, ha voluto garantire un modello che restituisse alla magistratura un’immagine di imparzialità e indipendenza, caratteristiche soppresse durante le esperienze autoritarie.  

Nel panorama europeo, seppur con diverse sfumature, il principio di separazione dei poteri si riflette in maniera più o meno evidente sulla tendenza all’esclusione del potere giudiziario dalla sfera politica.  

La figura del magistrato, per definizione terza ed imparziale, deve rimanere dunque avulsa dal coinvolgimento partitico, in modo da poter garantire una giurisdizione quanto mai equa, che trova il suo alveo nei principi democratici costituzionali. 

La libertà di associazione può presentare, infatti, un pericolo per l’indipendenza della magistratura, a causa delle pressioni dirette o indirette che si imporrebbero sul modus pensandi dei singoli magistrati.  

Dal momento che questi presupposti rappresentano un rischio all’integrità del potere giudiziario, i sistemi dei Paesi improntati sul modello amministrativo hanno visto un legislatore propenso a contemplare la creazione di vincoli alla libertà di associazione, nel momento in cui la stessa venga ad essere collegata a strutture politiche.  

In quest’ottica, secondo la dottrina calamandreiana, alla base del processo costituente italiano, l’attività politica può turbare la serenità ed imparzialità del magistrato, o quanto meno l’altrui fiducia nella sua serenità ed imparzialità.  

A ben vedere, tale divieto per i magistrati ha una ratio precisa, in quanto essi, oltre ad essere al servizio della società, come altre categorie della pubblica amministrazione, costituiscono un ordine autonomo e indipendente dello Stato.  

Pertanto, un magistrato che volesse affiliarsi politicamente si dissocerebbe dal principio costituzionalmente garantito di autonomia del potere giudiziario. 

In particolare, nel caso italiano e spagnolo viene introdotto un riferimento programmatico già a livello costituzionale, sviluppato poi con leggi ordinarie, volto a restringere il perimetro di associazione partitica dei singoli magistrati. 

Tuttavia, mentre il sistema italiano lascia aperta una lacuna in termini di candidabilità politica dei giudici, il sistema spagnolo è maggiormente garantista, permettendo che un giudice possa candidarsi esclusivamente a seguito di un periodo di cessazione forzosa dell’attività giudiziaria.  

In Francia, invece, nonostante la costituzione preveda un quadro programmatico per l’istituzione di limiti alla libertà di associazione partitica, la stessa è consentita ai magistrati, al pari di ogni altro cittadino, ma a condizione che non diventi fonte di una militanza politica attiva.  

A completare il quadro, in Germania, si registra un sistema sui generis, che si distacca dal trend degli altri Paesi europei presi in esame.  

Nell’ordinamento tedesco vige infatti un modello piramidale, fortemente legato ai Ministeri di Giustizia dei singoli Land, data l’assenza di un organo di autogoverno.  

I giudici, inoltre, beneficiano di una maggiore autonomia rispetto agli altri ordinamenti, con un più ampio spazio di manovra nelle proprie decisioni, nei limiti dell’imparzialità. 

Tra i sistemi di common law, invece, l’ordinamento statunitense è fondato su un modello selettivo per elezione, sublimazione del principio democratico.  

Ai giudici, in questo caso, non solo viene concessa la possibilità di associazione partitica, ma essa stessa diviene il canale per accedere alla funzione, almeno con riferimento ai sistemi puramente partisan.  

Il fenomeno dell’associazionismo assume, pertanto, tratti del tutto inediti, non essendo più sottoposto a vincoli.  

Nonostante questo modello ambisca a garantire un meccanismo democratico di partecipazione dei cittadini all’amministrazione della giustizia, esso può comportare due principali criticità.  

Da un lato, nei modelli partisan, il modello rischia di creare un’amministrazione della giustizia esclusivamente volta al soddisfacimento delle prerogative elettorali.  

Nei modelli non partisan, invece, specialmente in quelli dove è in vigore il meccanismo del merit plan, nonostante si voglia garantire un sistema maggiormente equo e per antonomasia meritocratico, il rischio è che le istanze del ceto forense possano essere privilegiate in sede istituzionale, creando un sistema di amministrazione elitario della giustizia. 

Il modello di selezione per elezione è per sua natura quello che maggiormente crea un’osmosi tra sfera politica e giudiziaria.  

Si pone, infatti, il problema di differenziare la demo-crazia costituzionale dalla democrazia maggioritaria, problema già espresso a livello politico da Dworkin.  

In questo senso, è necessario un sistema permeato da una piena informazione, in modo da creare le basi per un sistema coerente in mano agli elettori.  

Infatti, in un’ottica di amministrazione della giustizia in favore dei cittadini, la trasparenza diviene il punto di forza, permettendo, in tal modo, di preservare l’imparzialità dell’organo e la fiducia che i consociati vi ripongono.  

I modelli analizzati tendono, in modi differenti, a salvaguardare un equilibrio non solo tra i distinti poteri statali, ma anche all’interno di ciascuno di essi.  

Ogni sistema va inteso come lo specchio di un sostrato storico e giuridico consolidatosi nel tempo, frutto non solo dell’evoluzione dei sistemi costituzionali domestici, ma anche della figura stessa del magistrato.  

Il magistrato del nostro tempo, infatti, per le funzioni che è chiamato a svolgere, non può più essere considerato soltanto bouche de la loi, con caratteristiche puramente tecniche.  

Sempre più spesso, esso è chiamato ad avere una responsabilità anche di natura “politica”, con nuove e più complesse funzioni, soprattutto alla luce del peso del precedente giudiziario, che lo rendono partecipe dell’elaborazione di una politica del diritto.